San Francisco, l’orologio indica le ore 10.16 (PT) del 22 settembre 2011, il giovane CEO di Facebook Mark Zuckerberg sale sul palco del San Francisco Design Center per presentare al mondo qualcosa di rivoluzionario. La prima novità è rappresentata dalla Timeline, la nuova interfaccia grafica (e non solo) che avrebbe spazzato via la tradizionale bacheca per dare vita a una linea temporale che ripercorre la storia di tutti i momenti della nostra vita, proprio come in un diario.
La seconda novità riguarda invece una nuova generazione di applicazioni integrate nella Timeline, basata sulla mappa delle relazioni e delle connessioni degli utenti di Facebook denominata Open Graph (la versione successiva del Social Graph) e che da quel momento si sarebbe arricchita di nuovi vocaboli per favorire
la connessione a ogni cosa che vogliamo, nel modo in cui vogliamo.
Detto in altri termini, al tradizionale “mi piace” si sarebbero aggiunti nuovi verbi come “leggere”, “guardare”, “mangiare” per definire ancora meglio le nostre azioni.
L’importanza e il carattere rivoluzionario della Timeline e dell’evoluzione dell’Open Graph risiede nella volontà di Facebook di consolidare l’affermazione del cosiddetto Real Time Web. Un nuovo habitat ibrido dove il mondo reale si combina con quello virtuale, un ambiente costituito da conversazioni in tempo reale che si strutturano attraverso i social media, permettendoci di “cinguettare” 140 caratteri con Twitter, di condividere la nostra posizione geografica con iLocation-based services come Foursquare e di comunicare cosa stiamo facendo e cosa sta accadendo intorno a noi in quel preciso istante. Il Real-Time Web e le sue applicazioni fungono da catalizzatori per uno sviluppo esponenziale di conversazioni di bit che vanno a comporre una sorta di flusso di coscienza, uno stream of consciousness digitale che lascia la propria impronta nei percorsi rizomatici della Rete.
Che piaccia o meno la Timeline ha reso più trasparente una serie di problematiche relative alla privacy, mettendo in risalto il fatto che le nostre azioni rimangono fissate nel tempo e nello spazio del web e in particolare della facebooksfera. Su questo aspetto sono in piena sintonia con quanto ribadito qualche tempo fa da Giovanna Cosenza, docente di Semiotica e Semiotica dei nuovi media presso l’Università di Bologna, che nel suo status Facebook scriveva:
A me il Diario o Timeline di Facebook piace, per una semplice ragione: costringe tutti a rendersi conto che i dati che si piazzano qui… RESTANO nel tempo. Oggi sono solo più fruibili di ieri, che per ripescarli bisognava sfogliare all’indietro pagine e pagine. Mi pare dunque un cambiamento che – paradossalmente – favorisce la privacy e non la danneggia, nel senso che favorisce il fatto che più persone di ieri capiscano fino a che punto NON conviene raccontare qui dentro troppa roba di sé…
Ora che la Timeline ha effettuato il suo switch-off globale, sono sempre di più le applicazioni che ci consentono di comunicare in tempo reale nel ticker delle attività sociali ciò che stiamo facendo. Già da qualche mese è possibile leggere un articolo sull’applicazione “The Guardian“ e in maniera del tutto automatica pubblicare nel flusso continuo di notizie l’azione che si compie (esempio “Marco legge questo articolo sul The Guardian”) oppure, tramite l’applicazione “Spotify”, si può condividere la canzone che si sta ascoltando. E ancora, scendiamo di casa per andare a fare jogging e mentre corriamo il sensore Nike+ presente all’interno delle scarpe trasmette statistiche sul nostro andamento (velocità, tempo di percorrenza, calorie bruciate, ecc…) all’iPhone che stiamo utilizzando per ascoltare della musica (condivisa in tempo reale con i nostri amici). Il nostro smartphone con un’apposita app incrocia questi dati con il GPS andando a pubblicare automaticamente sulla nostra timeline il percorso esatto che abbiamo compiuto. E questa è solo una delle infinite possibilità di utilizzo.
Ovviamente tutto questo sarà possibile previa autorizzazione degli utenti che, in nome di alcuni bisogni come ad esempio il desiderio di appartenenza e identificazione, di status e di prestigio sociale, dell’espressione del sé e di competizione (Maslow 1954), condivideranno con altre persone le proprie attività. Alle istantanee perplessità che sorgono sulla privacy degli utenti, Facebook risponde altrettanto celermente mostrando come sia possibile personalizzare i livelli di privacy delle proprie attività. Ma la questione non è così semplice e non può essere risolta e ridotta in una help guide.
Se il topic privacy è sicuramente centrale quando si parla delle nostre attività in rete, un altro argomento chiave è rappresentato dall’esperienza umana. Condividere in tempo reale qualsiasi cosa facciamo può cambiare il nostro modo di percepire la realtà? In un articolo di Natan Jurgenson dal titolo “Facebook, dunque sono”, tradotto e ripubblicato nella rubrica “Il Club de La Lettura” sul Corriere della Sera, si propone una visione «apocalittica» del rapporto tra uomo-socialmedia-realtà. Il sociologo americano del Centro Studi di Etnografia Digitale esprime la sua preoccupazione sui social media e il loro potere di insinuarsi dentro le persone, cambiando il modo di percepire il mondo, anche quando non si trovano online. Il pericolo per l’uomo sarebbe quello di acquisire un “occhio Facebook”:
Il nostro cervello è sempre alla ricerca delle occasioni in cui il volatile momento dell’esperienza vissuta possa essere meglio tradotto in un post su Facebook, in un messaggio che possa attrarre il maggior numero di commenti e di gradimenti. Facebook fissa sempre il presente come un passato futuro. Con questo voglio dire che gli utenti dei social media sono sempre consapevoli che il presente è qualcosa che si può pubblicare online e che sarà consumato da altri. Siamo così presi dal pubblicare la nostra vita su Facebook da dimenticarci di viverla nel presente? Pensate a una volta in cui avete fatto un viaggio con una macchina fotografica in mano e poi a un’altra in cui non l’avevate. L’esperienza è leggermente diversa. Abbiamo un rapporto diverso con la realtà quando non dobbiamo curarci di documentarla.
(Jurgenson 2011).
In realtà il modo di percepire la realtà, le modalità di accesso all’esperienza sono da sempre mediate da artefatti culturali, materiali o immateriali. L’antropologo inglese Gregory Bateson nel suo volume intitolato ”Verso un’ecologia della mente” (1972) scrive:
Supponiamo che io sia cieco e che usi un bastone. Cammino toccando le cose: tap,tap,tap. In quale punto incomincio io? Il mio sistema mentale finisce all’impugnatura del bastone? O finisce con la mia epidermide? Incomincia a metà del bastone? O alla punta del bastone?
(Bateson 1972).
Potremmo dire quindi che tutti noi siamo ciechi dal momento che senza gli artefatti non potremmo esplorare la realtà. La realtà “interna” (della nostra mente) e la realtà ”esterna” (il contesto), sono dunque figura e sfondo della complessità cognitiva umana. Le recenti scoperte nel campo delle neuroscienze avvalorano tale tesi dimostrando come il cervello umano sia plastico (Norman Doidge), ovvero pre-disposto a interagire con l’esterno trasformando l’organizzazione dei dati sensoriali provenienti dall’ambiente in cui ci troviamo.
A partire dall’esistenza delle prime forme di aggregazione, l’uomo è nutrito dalla necessità di condividere e narrare la sua esperienza con il proprio ecosistema sociale, ma è proprio questo processo squisitamente sociale che inevitabilmente porta a modificare il proprio modo di vedere la realtà. Già prima della macchina fotografica, della videocamera o degli smartphone che pubblicano contenuti multimediali sui social network, sono la nostra personalità e le influenze sociali a incidere sul nostro modo di vedere il mondo e raccontare le nostre esperienze. Con il passare del tempo nuovi processi sempre più complessi e sofisticati come i media hanno interagito con i nostri sensi seguendo un moto circolare e di reciproca influenza.
Oggi ciò che viene completamente ridisegnata grazie alle nuove tecnologie dell’informazione è la dimensione temporale della condivisione delle proprie esperienze che diviene simultanea. La simultaneità ben rappresenta la velocità del cambiamento che non è mai stato così rapido e pervasivo. Talmente veloce che probabilmente i confini tra il nostro organismo, i media e l’ambiente circostante saranno sempre meno evidenti e quello stesso uomo che andrà a fare jogging non avrà più il sensore nelle scarpe, ma un micro-chip, frutto delle nanotecnologie, che impiantato nel proprio organismo comunicherà a un web server la sua necessità di bere, restituendogli la segnalazione di una fontanella (geolocalizzata) o di un bar (sponsorizzato) più vicino per dissetarlo. Il tutto ovviamente (se lo vorrà) condiviso sul suo profilo online.
Marco Cerrone
Pubblicato sulla rivista scientifica di Culture Digitali Media Duemila
N° 289 Luglio, Agosto, Settembre 2012
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